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Il clan Nabokov

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S crivendo un articolo denigratorio sulla traduzione dell’Onegin di Puskin ad opera di Walter Ardnt, impresa alla quale si stava dedicando pure lui e che finalmente stava vedendo la luce, Vladimir Nabokov sembra postulare come, in fondo, la poesia sia impossibile da tradurre. Non a caso Nabokov traduce il classico di Puskin, parole sue, in maniera “semplice e prosastica” e nella sua introduzione insiste ancora sul fallimento che si prefigura per chiunque si lanci in una traduzione in versi. Viene in mente un racconto di Tommaso Landolfi, il Dialogo dei massimi sistemi: anche in quel caso all’attività di traduzione, a cui lo stesso Landolfi si dedicava, viene consegnato uno statuto di infattibilità. Lì il protagonista, convinto di aver appreso la lingua persiana da un maestro misterioso e sfuggente che in realtà si è inventato tutto, si ritrova a fare i conti con la realtà e a scrivere delle poesie in una lingua che non esiste e quindi impossibile da tradurre. Così l’unica via di fuga da questa sorta di afasia poetica dove ogni componimento “è destituito di ogni senso” è la pazzia. E pure un po’ pazzi devono essere diventati i traduttori di Nabokov che hanno dovuto accettare critiche feroci – se non proprio delle dichiarazioni di incapacità – da parte dello scrittore russo, che non ha mai lesinato feroci rimproveri a chi si approcciava ai suoi testi senza, almeno a suo parere, esserne in grado.

Alla fine la soluzione più naturale era quella di tradursi da solo oppure, come vedremo, affidare la cura e la traduzione dei suoi testi alla sua famiglia, alla moglie Vera e al figlio Dmitri. Chiara Montini, ricercatrice, traduttrice e studiosa della traduzione, definisce questa impresa famigliare il “Clan Nabokov”, proprio per sottolineare il carattere comunitario e chiuso di questa associazione lavorativa. Il clan Nabokov. Quando l’erede è il traduttore (pubblicato da Mimesis) è un saggio che indaga, con un fare quasi poliziesco, in ricerca di “piccoli indizi” all’apparenza marginali ma che poi rivelano la struttura più profonda delle cose, come pian piano all’interno della famiglia Nabokov si sia creata una gerarchia lavorativa che vedeva inizialmente il padre occuparsi in prima persona della traduzione dei suoi testi, o quantomeno esigeva di rivedere le traduzioni per metterci dell’altro, con la moglie Vera ad accompagnarlo prima che, dopo la morte di entrambi, questo compito passasse nelle mani del figlio Dmitri, personaggio eccezionale e fuori dalle righe che si ritroverà, non si sa quanto suo malgrado, a sovrapporre la sua esistenza a quella del padre perpetuandone, talvolta con gli stessi scatti furiosi, l’opera e la memoria.

Ciò che rende particolarmente interessante questo libro di Montini è la sua struttura e il modo in cui è organizzata la materia multiforme che lo compone: se infatti la forma saggistica riesce a percorrere vie oblique, sconnesse e metaforiche e grazie a questa struttura resta in tema anche nella digressione, Il clan Nabokov sembra configurarsi come il racconto di un percorso di ricerca, quello dell’autrice, che dopo decenni si prefigge di percorrere nuove strade. Nel breve Preambolo che anticipa il percorso dentro l’opera della famiglia Nabokov, Montini ricostruisce gli itinerari biografici che l’hanno portata a lavorare a questo libro: studiosa di traduzione e, in particolare, di auto-traduzione (tra i cui frutti è doveroso segnalare lo straordinario saggio La bataille du soliloque) e traduttrice, tra gli altri, di Beckett (di cui ha tradotto per Einaudi Mercier et Camier), Montini si è scontrata con il fantasma del figlio di Nabokov durante un convegno a Bologna, dove rimane intrigata dall’unico figlio dello scrittore, “esecutore testamentario e paladino”  che “sposerà a seconde nozze”, dopo la morte di Vera Evseevna Slonim, poi Nabokov, moglie dello scrittore, l’opera del padre.

Così, dopo lunghi anni di studi sul multilinguismo, nasce l’idea di un libro “diverso”, in grado di combinare “biografia, lingue e traduzione”, Il clan Nabokov riesce proprio in questa complicata impresa, riuscendo a coniugare un andamento narrativo relativo alla vita dei protagonisti con le teorie sulla traduzione di Nabokov e i percorsi complessi della sua opera in altre lingue. Ad aggiungere inoltre un ulteriore elemento autobiografico sono i brevi quadretti in corsivo, tra l’onirico e il fenomenico, che anticipano i capitoli e dove troviamo il percorso di studio e ricerca di Montini (per esempio con il racconto del lavoro fatto per il volume di saggi sulla traduzione di Nabokov, Traduzioni pericolose), reminiscenze infantili riguardo a incontri e scontri con lingue diverse, improvvise e fantasmatiche apparizioni dei libri di Nabokov nella città di Parigi o sogni in cui appaiono Dmitri Nabokov in Costa Azzurra o Beckett a Roma. Non si tratta però di semplici divagazioni stilistiche: questi piccoli racconti ed episodi sono piuttosto una sorta di esorcismo verso la complessa materia su cui lavorare e testimonianza della pervasività della ricerca, granulosi nodi mentali che nel trasferimento sulla pagine si fissano come paletti capaci di segnare il percorso.

Nabokov ha scritto che dopo la sua morte sarebbe stato ricordato per Lolita e per la sua traduzione dell’Eugenio Onegin.

Le domande a cui Montini con il suo saggio si prefigge di rispondere si riferiscono ai motivi che hanno portato un autore così severo a scegliere il figlio come traduttore, e sul perché Dmitri abbia deciso di abbandonare la sua carriera di cantante lirico e pilota automobilistico a favore dell’opera paterna. Nella prima parte del libro Montini enuclea la teoria della traduzione nabokoviana mettendo in luce l’esigenza talvolta insostenibile delle sue richieste, per le opere altrui e per le sue, e il desiderio di rivedere ogni traduzione (consegnando in questo modo dei libri con nette differenze tra una lingua e l’altra tanto da apparire come oggetti autonomi).

Nabokov ha scritto che dopo la sua morte sarebbe stato ricordato per Lolita e per la sua traduzione dell’Eugenio Onegin, riflessione che fa ben comprendere il ruolo precipuo, quasi al pari della creazione letteraria, che Nabokov affidava alla traduzione (Puskin appunto, ma anche Lermontov, oppure Carroll dall’inglese al russo), un’attività che doveva essere guidata dal demone della “letteralità”, cioè tradurre i testi in maniera assolutamente letterale (“predilige la letteralità testuale nella lingua di arrivo all’eleganza stilistica” sottolinea Montini mostrando come per Nabokov la traduzione non fosse la scrittura di un altro testo, ma “un’umile ancella al servizio dell’originale”). Dentro questo percorso di traduttore Nabokov riversa la sua attenzione anche nei confronti della propria opera trasformandosi, fin dagli anni Trenta, in autotraduttore instancabile e anche in revisore e correttore implacabile delle traduzioni altrui dei propri libri una volta appurata l’impossibilità di rimanere soddisfatto dal lavoro svolto da altri, con le traduzioni che diventano praticamente delle brutte copie che vengono rielaborate dall’autore.

Dentro questo complesso palinsesto creativo entra in scena il “clan”, ovvero la famiglia Nabokov, un’impresa famigliare legata da un unico obiettivo, dare respiro e successo all’opera paterna, curare i dettagli tecnici e legali mentre il maestro è al lavoro, fornire le migliori traduzioni possibili per fare in modo che l’originale paterno non si perda nel passaggio da una lingua all’altra. E se sul rapporto tra V. e V. (Vladimir e Vera) le notizie sono molte e la critica già si è soffermata sulla natura di questo rapporto, mettendo in luce la funzione centrale di Vera, un “secondo cervello”, il collo (lei) su cui poggiava la testa (Nabokov) secondo Martin Amis, il libro di Montini si trasforma in una preziosa fonte di informazioni sulla figura del figlio Dmitri, che per circa metà del libro si prende la scena.

Dmitri è nato pochi anni prima della partenza della famiglia Nabokov per gli Stati Uniti quando a Berlino, ricorda Nabokov in Parla, ricordo, “i fiori primaverili adornavano i ritratti di Hindenburg e di Hitler”, e la sua esistenza è incastonata dentro quella dei genitori. Dmitri negli schemi preparatori della sua autobiografia, come riporta Montini che ha consultato carte edite, inedite e fa riferimento a testi non ancora tradotti in italiano, scrive un appunto che nella sua icasticità dà bene la misura di questa relazione: “Immortalità di V&V come consiglieri onnipresenti. Trasmissione dell’eredità letteraria, in tutti i sensi…”. I genitori, seppur morti, continuano a essere onnipresenti, tanto che la loro eredità assume un tono mistico perché si tratta di un’assenza che si trasforma in grimaldello per dare conferma della propria esistenza, tanto che quel “in tutti i sensi” sembra anche una prerogativa autoriale di Dmitri: ecco allora che la morte dei genitori, che avevano sempre coccolato e spesso assecondato i vizi e le estrosità del figlio, non segna una cesura, ma si tramuta invece in un momento di passaggio che replica e conferma la vita, dell’opera, dei genitori e del figlio stesso.

Il clan Nabokov cura i dettagli legali mentre il maestro è al lavoro,e  fornisce le migliori traduzioni possibili per fare in modo che l’originale paterno non si perda nel passaggio da una lingua all’altra.

Salta all’occhio per esempio come Vera, che ha sempre lavorato fianco a fianco con Vladimir, non compaia come traduttrice dei suoi libri, onore che invece è lasciato al figlio, spesso anche a fronte di un lavoro molto minore, forse anche un modo per stuzzicare il suo interesse e l’aspetto più narcisistico della sua personalità. Ma anche questa situazione può essere osservata entrando in quell’unicum che mescola finzione e vita, immaginazione e realtà, che è l’opera di Nabokov. Numerosi sono infatti i personaggi femminili positivi che appaiono nei romanzi di Nabokov, tra l’altro tutti dedicati alla moglie, e che rimandano direttamente a Vera, da Il dono a Fuoco pallido, fino a La vera vita di Sebastian Knight dove la messa in scena pare improvvisamente svelata quando l’autore descrive Clara che aiuta Sebastian in una traduzione, stessa attività a cui erano dediti i coniugi Nabokov:

Quando batteva le parole che lui districava dal manoscritto, a volte si fermava un po’ accigliata, sollevando appena il bordo esterno del foglio prigioniero e rileggendo la riga: ‘No, mio caro. In inglese non puoi dire così”. Lui la fissava per un istante o due, poi riprendeva a inseguire la sua preda, riflettendo controvoglia su quella osservazione mentre lei aspettava tranquilla con le mani dolcemente intrecciate in grembo.

Ecco allora che la traduzione, elemento imprescindibile dell’opera nabokoviana, diventa nella finzione romanzesca la crepa che svela la vita vera, e così il lavoro di Dmitri in questo senso lo porta a superare il suo essere soltanto fonte d’ispirazione (per esempio, come annota Montini, in “Lance” – contenuto in Una bellezza russa – dove il protagonista che dà il nome al titolo si prepara per una missione nello spazio facendo esplodere l’apprensione dei genitori, di cognome Boke forse in assonanza con Nabokov, replicando le preoccupazioni che la vita di Dmitri generava nei genitori) e a fungere, scrive Montini, “da tramite, traducendo, tramandando, trasmettendo, e seguendo la tradizione di famiglia”. Un’anima quindi che trova la sua fermezza nel farsi fisicamente luogo di passaggio e di perpetuazione, soglia da attraversare.

La vita di Dmitri sembra segnata da una cesura netta e precisa, che divide un iniziale interesse marginale per l’opera paterna da una devozione, complessa e non sempre lucida, nei confronti di questa. Dmitri era sin da ragazzo appassionato di automobili, sport estremi e velivoli (le preoccupazioni dei Nabokov anche economiche: una volta Vladimir gli scrive che con alcuni racconti che ha venduto non gli comprerà nessun velivolo, la madre invece lo inviterà a “ripercorrere con attenzione la tua vita finanziaria”), ma anche un promettente cantante d’opera (vincerà un premio a una competizione a Reggio Emilia insieme a un allora non troppo conosciuto Luciano Pavarotti), una doppia occupazione da cui però non nasceva nessuna strada che paresse ai genitori garantire solidità e sicurezza per il suo futuro. Così V&V decidono di coinvolgerlo più attivamente nell’impresa Nabokov, ma anche lì Dmitri si dimostra, almeno inizialmente, reticente, come nel lavoro su Un eroe del nostro tempo di Lermontov: allora Vera e Vladimir pensano che potrebbe essere una buona idea farlo lavorare sui testi del padre, grazie alla sua ottima conoscenza delle lingue (almeno russo, inglese e italiano), dell’opera paterna e del padre stesso, ancora una volta una relazione triangolare che incastona con successo le forze famigliari.

Si tratta di un’intuizione che porterà i suoi frutti, anche se dovrà inizialmente passare dalla morte, prima quella del padre, poi quella – appena mancata – di Dmitri stesso: nella scomparsa, ancora, rifiorisce la presenza e il percorso della memoria. Il 26 settembre 1980 Dmitri sta guidando una delle sue Ferrari tra Montreux e Losanna quando perde il controllo (si sospetta addirittura si tratti di una manomissione a opera dei servizi segreti, in quanto Dmitri aveva collaborato con quelli americani) e rimane coinvolto in un incidente quasi mortale in cui, tra gli altri gravi danni, si frantuma il collo e rimane ustionato su quasi metà del corpo. Della degenza in ospedale scrive:

Il dodicesimo giorno, per un breve istante, sono clinicamente morto. Una luce accecante mi chiama verso la fine del classico tunnel, ma all’ultimo istante il pensiero di tutti quelli che mi vogliono bene e delle cose importanti che mi restano da compiere mi trattiene.

Quali sono queste cose importanti? Lo scrive lo stesso Dmitri: “Esco dall’ospedale con nuove priorità: ho deciso di dare il mio miglior contributo dedicandomi alla scrittura, quella di mio padre e la mia”. Scampato per un soffio alla morte, adesso Dmitri si immola per l’opera paterna: “ha visto la morte negli occhi – riassume Montini – ha rischiato di gettarsi nel tunnel senza ritorno e, quale un miracolato, ne è rimasto folgorato”. Così fino alla morte della madre lavora a suo fianco e impara molto (“Sono grato a Vera Nabokov per la sua infinita saggezza, il suo superlativo giudizio e la sua forza di volontà che mi hanno sempre guidato nell’impegnativo compito di preservare e diffondere l’eredità letteraria di mio padre” scrive nell’introduzione a Una bellezza russa) fino a che, da solo dopo la morte di Vera, avverte un peso quasi insostenibile nel portare avanti questo lavoro così estenuante (traduzione, diritti d’autore, incontri in giro per il mondo), come emerge da alcune righe scritte per il necrologio della madre: “In una distorsione nabokoviana degli eventi, ci furono difficoltà a trovare la sua urna. Il mio istinto fu di chiamare mia Madre, e chiederle cosa fare. Ma non c’era nessuna madre a cui chiedere”.

La vita di Dmitri sembra segnata da una cesura che divide un interesse marginale per l’opera paterna da una devozione, complessa e non sempre lucida, nei confronti di questa.

A questo punto però l’attività di traduzione si trasforma in una vera e propria attività creativa individuale, che finisce per sovrastare anche i desideri personali di scrittura (due autobiografie, inedite in italiano, e un romanzo che giace negli archivi e nel quale, a detta di Montini, ritroviamo alcuni stilemi paterni). Si tratta di un rito di passaggio che pare trovare suo simbolico compimento nel lavoro su L’incantatore, romanzo che rappresenta il “primo, piccolo palpito” di Lolita, il più grande successo del padre, un manoscritto che Vladimir pensava di aver distrutto e che invece il figlio ritrova, traduce e rimette in circolo. Pare quasi che in questa situazione Dmitri compia un ulteriore passo finale nell’emulazione e identificazione paterne praticando l’autotraduzione, poiché traduce il testo russo, a partire dalla sua versione inglese, in italiano: le prime due lingue sono quelle della famiglia e gli derivano dall’origine e dalle scelte dei genitori, l’italiano invece, che aveva appreso grazie alla sua passione per l’opera, diventa il simbolo di una rivendicazione autonoma, generando un incrocio di lingue che disegna benissimo la natura del “Clan Nabokov”.

Dare nuova vita a questo testo diventa allora la possibilità per Dmitri di immettere il suo nome dentro la vicenda paterna: L’incantatore, al di là del valore letterario di un’opera che forse il padre stesso aveva deciso di non ripubblicare, è non solo un libro di Nabokov che assume una nuova forma, ma è anche il lavoro attraverso il quale Dmitri dà prova di poter gestire l’eredità paterna e, addirittura, di potersi sostituire a lui. Sembra che l’esistenza di Dmitri Nabokov allora sia rimasta intrappolata in un paradosso: lui che fino all’incidente voleva brillare quasi esclusivamente di luce propria, dopo la catarsi generata dalla vicinanza con la morte finisce per accettare un compito che lo illumina solo di riflesso, “ma a quel punto il nostro singolare traduttore sembra di nuovo brillare, confondendosi, però, con l’autore”.

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